JACKIE

”Voglio che vedano cos’hanno fatto a John”

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Non sono una grande fan dei biopic e questo in particolare, sebbene forse non lo sia proprio al 100%, presenta un taglio documentaristico molto accentuato: un genere che può piacere o meno e che a me, per esempio, non piace. Ho voluto vedere Jackie principalmente per l’interpretazione della Portman e infatti ci ho trovato solo quella.
Ma, d’altronde, di certo 
non mi aspetto colpi di scena da una storia già scritta.

Nelle prime scene troviamo Jackie impegnata in un’intervista qualche anno dopo la morte di Kennedy in cui racconta i giorni immediatamente successivi, dall’assassinio in auto ai funerali e l’attenzione mediatica che si è lasciata riversare addosso con fiera ostinazione.
Così torniamo indietro per ripercorrere attraverso la sua stessa testimonianza la tragedia che Jackie ha vissuto in prima persona cercando la forza dentro di sé piuttosto che negli altri, dimostrandosi una donna minuta e fragile solo all’apparenza ma dalla scorza dura, fiera come una leonessa ferita.
Il ritratto che ne fa la Portman, specie nei momenti più intimi e difficili, rispecchia la tempra di una donna che ha cercato di tenere insieme il cranio del marito con le mani e si è voluta mostrare al mondo col vestito sporco di sangue, affinché tutti sapessero cosa fosse successo.

 Jackie è stata sempre ammirata per il suo contegno e la ferrea volontà di accompagnare Kennedy fino alla fine mostrandosi per quello che era, ovvero una moglie e una madre chiamata a far fronte al dolore per la scomparsa di due figli prima e del marito poi.
Una donna che avrebbe potuto considerarsi privilegiata dalla sua condizione sociale ma a cui il destino non ha voluto risparmiare una enorme mole di sofferenza, oltretutto obbligandola a nascondere il suo dolore al cospetto di mezzo mondo che puntava lo sguardo su di lei, sulle sue scelte, sul suo futuro in bilico.

Una nota di merito innegabile va sicuramente ai costumi e agli splendidi abiti di Jackie, un’icona di stile senza tempo. Una nota di demerito, invece, va al contorno che ruota attorno a lei passando praticamente inosservato. Il dramma traspare nitido e incisivo soltanto grazie agli occhioni umidi della Portman, ai suoi sguardi combattivi, alla fragilità che trapela nonostante i toni fermi e la valanga di sigarette che si porta alla bocca, l’atteggiamento di sfida con cui porta a termine l’intervista.
Attorno a lei si muovono marionette senza spessore ma d’altronde l’intento del film è puntare i riflettori su Jackie mentre tutto il resto si limita a essere raccontato per quello che è, ovvero una sequela di eventi noti su cui non c’è bisogno di insistere in maniera morbosa.

Il lavoro attoriale della Portman è stato senza dubbio accurato ma un po’ sopravvalutato per i miei gusti, a tratti persino forzato
Credo però che il film in generale abbia qualcosa che non va, come se non si capisca quale debba esserne il senso più profondo se non quello, appunto, di raccontare una Jackie Kennedy che non leva e non aggiunge niente alla figura che già conosciamo.
Ma se così fosse sarebbe stato senza dubbio meglio un documentario molto più breve e con molti meno fronzoli.

JACKIE TRAILER ITA

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MOONLIGHT

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Finalmente sono riuscita a vedere ‘sto benedetto film che a quanto pare è il miglior film dell’anno e la domanda sorge spontanea: quest’Oscar se l’è meritato?

Ma procediamo con ordine.
Chiron è un bambino che sta sulle sue, silenzioso e vittima di bullismo, con una madre mezza puttana e mezza beona. Un giorno incontra Juan, spacciatore locale, che diventerà la sua figura di riferimento e gli insegnerà i primi rudimenti della vita. 
Da adolescente scopre la sua omosessualità latente con l’amico Kevin, lo stesso che per una scommessa con i bulli lo gonfia di botte, finché Chiron si vendica guadagnandosi un soggiorno in riformatorio. 
Da adulto diventa il sosia di 50 Cent e spaccia nel quartiere con un piglio da gansta dei bassifondi, gonfio di muscoli e pronunciando una frase ogni mezzora. Solo nel finale verrà fuori l’unica nota morbida del film, una carezza in cui si nasconde il bocciolo delicato di un sentimento tenuto nascosto per anni che lascia sperare in un bagliore di luce, delicato come un raggio di luna.

Moonlight è una storia dura, difficile da smussare, che racconta l’inadeguatezza dei più deboli in un mondo in cui le regole della strada temprano il carattere e si finisce irrimediabilmente col diventare parte di essa: non si aspira a diventare qualcuno, non c’è cambiamento, soltanto una rassegnazione di fondo che cancella la fiducia nei confronti del futuro.
Chiron è uno dei tanti giovani disadattati, ghettizzati all’interno della loro stessa comunità, in questo caso lo spaccato di un’America nera coi suoi usi e costumi un po’ visti e rivisti che, a mio avviso, non bastano a trasformare Moonlight nel miglior film dell’anno.
Quindi, tornando alla domanda di partenza: l’Oscar è meritato?
Sì e no.

perché è senza ombra di dubbio un ottimo film, nonostante il mio cuore tifasse per Arrival e mi aspettavo incetta di statuette da parte di La La Land.
È la classica trama il cui scopo è sollecitare la riflessione su argomenti che stanno a cuore alla società e rimangono tuttora da scardinare completamente come l’amore gay o, ancora, l’abbandono e il conseguente danno psicologico inferto ai bambini da genitori assenti o drogati.
Dall’altra parte c’è il no, il perché non lo merita.
Per gli stessi identici motivi.

Tematiche già sviscerate, già viste, già raccontate altrove. La forza vera di questo film è seguire la scia di un’America incazzata con Trump e la sua intolleranza alla diversità, è l’ennesimo manifesto di una minoranza debole, vessata, di cui ci si approfitta. 
La cerimonia degli Oscar, d’altronde, è stata VAGAMENTE politicizzata, ma giusto un filino.
Intanto Mahershala Ali si è beccato il premio come miglior attore non protagonista con un personaggio senza spessore particolare che appare nei primi venti minuti di pellicola e poi muore in circostanze oscure. È talmente marginale che nemmeno ci dicono come è schiattato, insomma. Io l’Oscar l’avrei dato a Dev Patel ma finché non entrerò a far parte dell’Academy dubito che il mio giudizio valga qualcosa.

VOTO: 7

MOONLIGHT TRAILER

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MR NOBODY

”Promettimi che, quando morirò, spargerai le mie ceneri su Marte”

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Lo so, oggi è il The Day After Oscar e se mi voglio spacciare per una che ama il cinema e prova ogni tanto a dire la sua dovrei lanciarmi in un’analisi approfondita della pallosissima cerimonia in cui tutti sanno che c’è stata la gaffe delle buste, che LaLaLand ha vinto sei statuette e la barba di Casey Affleck tra poco assumerà il controllo della sua intera faccia.

Non credo che qualcuno sentirà la mancanza del mio parere al riguardo per cui preferisco andare controtendenza parlando di Mr Nobody, uno dei miei film preferiti in assoluto che a quanto pare viene considerato di nicchia o una specie di cult semisconosciuto ai più e osannato da chi invece ha avuto la fortuna di vederlo.
Rilasciato nel 2009 e interpretato da Jared Leto, Mr Nobody mescola insieme fantascienza e dramma più un trip da sostanze stupefacenti; per intenderci, ricorda un po’ Donnie Darko per la possibilità che concede a ognuno di filtrare l’interpretazione attraverso la propria sensibilità, nell’ottica che una spiegazione letterale non può esistere.

La premessa è che gli uomini, ormai, sono diventati immortali: tranne il protagonista, che alla veneranda età di 117 anni si appresta a morire e decide di affidare le sue memorie a un giornalista.
Nemo Nobody è il tipico vecchio che esordirebbe con un ai miei tempi…e cadrebbe in una diarrea verbale interrotta soltanto dalla pausa brodino. E infatti comincia a raccontare la sua infanzia mentre il giornalista si chiede fino a che punto lo stia prendendo per il culo, dato che non si capisce in maniera chiara quali situazioni siano realmente accadute e quali no.
Ci imbattiamo nel classico gioco del cosa sarebbe successo se, a partire dalla scelta di Nemo bambino che deve decidere se seguire il padre o la madre a fronte del divorzio.
Da qui si apre una doppia possibilità che conduce inevitabilmente alla frattura della linea temporale, spaccando la trama in quattro piani narrativi differenti in cui Nemo incontrerà personaggi e farà cose in funzione di questa prima, inevitabile scelta.

Ok, sappiate che sto sudando sette camicie per cercare di spiegare la trama senza incappare in noiose spiegazioni sterili di cui io per prima non mi intendo: è chiaro che si tirano in ballo concetti complessi come la teoria del caos e delle stringhe ma per sapere di cosa si tratta c’è Wikipedia. Io sono ignorante e vi parlo da spettatrice che ha trovato in questo film una poetica riflessione decadente sull’esistenza, dalla cui imprevedibilità dipende la nostra realizzazione, l’incontro con l’amore della nostra vita, il luogo in cui mettiamo radici. Pensate soltanto a quante infinite possibilità avremmo se il tempo non fosse una linea retta ma un continuo incrocio tra passato, presente e futuro: le scelte diventerebbero consapevoli.
Il concetto è quello pirandelliano dell’uno nessuno e centomila e, di conseguenza, non è un caso che il protagonista si chiami Nemo Nobody (latino e inglese, in entrambi i casi vuol dire nessuno).

In un’epoca in cui il tempo non scandirà più l’incedere della vita umana e la morte è stata debellata come l’ultima, definitiva malattia, Nemo è l’emblema dell’instabilità che ormai non appartiene più a questo mondo. Tanto che il giornalista gli domanda, curioso, come si viveva quando la vita era solo un intervallo di tempo tra nascere e morire.
E lui risponde:
<<C’erano auto che inquinavano. Fumavamo sigarette. Mangiavamo carne. Facevamo tutto quello che non possiamo fare in questa fogna ed era meraviglioso! Ma la maggior parte del tempo non succedeva niente. Come nei film francesi>>

LO SAPEVATE?L’unico modo per vedere questo film è coi sottotitoli, perché in Italia non è mai arrivato se non nella presentazione del 66esimo festival di Venezia.
Il motivo?Forse non siamo pronti, cinematograficamente parlando, ad accogliere una tale perla. D’altronde le sale, qui da noi, si riempiono solo per i cinepanettoni e 50 Sfumature, mica per i film intelligenti con attori bravissimi e una colonna sonora da paura.
E per quanto riguarda gli attori, Jared Leto è straordinario: veste i panni di un personaggio che attraversa tutte le fasi della vita e riesce a regalargli spessore in ogni singolo frammento di scena. Che dire, tanto di cappello.

MR NOBODY TRAILER ENG

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MANCHESTER BY THE SEA

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Il male di vivere ho incontrato e aveva la faccia di Casey Affleck nei panni di Lee Chandler.
Già dai primi cinque minuti si capisce che sto povero Cristo c’ha qualcosa che non va, che c’ha rrrabbia (CIT), infatti risponde male un po’ a tutti e scazzotta nei bar, snobbando persino le tizie che ci provano con lui.
È una di quelle persone con cui forse mi sentirei a mio agio, disabituato alla vita sociale e alla gente e sebbene all’inizio non conosciamo la causa scatenante di questo brutto atteggiamento possiamo ipotizzare che Lee si stia trascinando dietro una bella zavorra.

Una zavorra che lo lega a Manchester-by-the-sea, ridente località dalle parti del Connecticut, dove il fratello deceduto lo ha nominato unico tutore del figlio Pat. In questa località da cartolina, con i suoi paesaggi innevati e il mare a due passi Lee era una persona normale, tempo prima, e trascorreva bei momenti sulla barca in mare aperto, in compagnia del fratello e di Pat. Aveva anche una famiglia, una compagna e tre bambine, ma un giorno un incidente di cui lui è l’unico e involontario responsabile gli distrugge la casa e la vita.
Lee si reputa inadatto a badare a Pat e sopratutto a tornare a Manchester, dove ci sono troppe facce note e troppi ricordi. Nel frattempo si è abituato a Boston, conducendo una vita solitaria e facendo l’idraulico ma Pat è un ragazzo giovane e pieno di interessi che vuole tenere la barca del padre e l’ipotesi di andare a vivere a Boston non lo sfiora minimamente.

Non credo sia facile rendere i tormenti interiori di un personaggio che parla poco e interagisce ancora meno con le comparse ma Affleck ci è riuscito tenendo tutto il dolore e i rimorsi di Lee dietro a un paio di occhi bellissimi ma oscurati da una coltre impenetrabile di diffidenza.
Lee è scappato, come ci ostiniamo a fare un po’ tutti, per non dover più fare i conti col passato, senza considerare che il passato prima o poi chiede il conto  e non ci si può nascondere per sempre. Suo fratello lo ha messo davanti all’obbligo -o quasi- di occuparsi di Pat e riscoprirsi, dunque, una figura genitoriale capace ma anche di riconsiderare se stesso come persona, per darsi un’altra possibilità.
Riconsiderare il concetto di casa, di famiglia, delle proprie radici. La barca, volendo, è il simbolo che spiega meglio ciò che intendo: serve per evadere e sperimentare il distacco dalla realtà, tanto il mare è sconfinato, il mare perdona tutto.
Ma tutte le barche rientrano nel porto, prima o poi.
La casa è l’unico luogo in cui la tempesta non ti tocca e non può affondarti: questa è la vera eredità che spetta a Lee, una lezione che sta a lui assimilare, sconfiggendo una volta per tutte i suoi demoni, concedendosi il perdono.

VOTO: 8
PUNTI DI FORZA: Casey Affleck (candidato all’Oscar come migliore attore protagonista), un attore che non amo particolarmente ma che in questo caso mi è piaciuto tantissimo, e la storia che nonostante duri parecchio e non presenta colpi di scena o dialoghi particolarmente brillanti non mi ha annoiato neppure per un secondo.

MANCHESTER BY THE SEA TRAILER ITA

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LION- LA STRADA VERSO CASA

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Nell’India più iconica che conosciamo, quella povera in cui anche -sopratutto- i bambini si arrabattano per sopravvivere, il piccolo Saroo e suo fratello Guddu vivono di espedienti, frequentano le stazioni, recuperano oggetti e cibo dai treni. Proprio un treno su cui Saroo si addormenta lo condurrà a Calcutta, lontano 1600 km dal suo villaggio, di cui il piccolo non conosce neppure il nome. Costretto a vivere in strada e poi in un orfanotrofio, la sua vita cambia nel momento in cui una benestante famiglia australiana decide di adottarlo regalandogliene una nuova.

Ma i ricordi, crescendo, affiorano prepotenti e inevitabili: il volto di suo fratello, le cave di pietra dove Saroo raccoglieva le pietre insieme a sua madre, il fiume, l’acquedotto davanti alla stazione: inizia così una ricerca senza linee guida, affidata a memorie sbiadite, Google Maps e cartine su cui segnare ipotetici indizi. E nel frattempo i rapporti intorno a lui vacillano, indeboliti dall’incertezza e il bisogno sempre più impellente di trovare la sua vera madre e abbracciarla, nonostante Saroo sia un uomo riconoscente, affezionato ai suoi genitori adottivi a cui dimostra una sconfinata gratitudine.

Tratto da una storia vera, Lion è un film toccante e delicato ma abbracciando una narrazione che supera i vent’anni sembra un po’ una costrizione comprimerla in una pellicola della durata di due ore, col risultato che il tempo segue una linea bizzarra e sembra dilatarsi quando Saroo è bambino e correre all’impazzata quando lo rivediamo adulto e si lancia nelle sue ricerche per tornare in India.
Poco male, a rendere il film riuscito ci pensano gli attori, primo su tutti il bambino che interpreta Saroo, nei cui occhi innocenti sembra quasi di poter vivere la miseria e la povertà che sperimenta sulla sua pelle ma senza capire fino in fondo il sacrificio del fratello o della madre. Un bambino vede e comprende soltanto l’amore da cui  viene circondato ed è questa la molla che permette a Saroo, una volta adulto, di rimettere a posto i pezzi mancanti e tornare al punto di partenza da cui, involontariamente, è stato allontanato.

Che dire di Dev Patel, un attore giovane e talentuoso dalla bellezza imperfetta e magnetica, capace di rappresentare un giovane tormentato alla ricerca della propria identità e di un posto nel mondo di cui conosce l’esistenza ma non l’esatta collocazione geografica.
È incredibile pensare che un bambino abbia vissuto un’avventura simile eppure è tutto vero, come sottolinea il film stesso sul finale inserendo  fotografie del protagonista insieme ai genitori adottivi e alla pagina di giornale su cui era stata annunciata la scomparsa.
Tanto per puntualizzare, anche Lion punta all’Oscar con cinque nomination, compresa quella per miglior attore non protagonista a Dev Patel e migliore attrice non protagonista a Nicole Kidman nel panni della madre adottiva, nonché quella per miglior film.

VOTO: 8
LO SAPEVATE? Perché si chiama Lion?ve lo svela una didascalia alla fine del film, motivo per cui, adesso, sarete costretti a vederlo 😛

LION TRAILER ITA
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LA LA LAND

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Ultimamente ho un gran bel problema quando vado al cinema: ho paura di commuovermi e uscire dalla sala in lacrime come è successo con Arrival e il problema è che ormai mi commuove tutto, mi sento fragile come un palloncino che rotola in una valle di spilli.

Ma non parliamo delle mie turbe psichiche e ormonali, parliamo di La la land, un film dal titolo urticante che si presenta come un musical quando invece è molto, molto di più.
Partiamo affermando con certezza che è destinato a segnare la produzione cinematografica di quest’anno -non è un caso se ha ricevuto ben 14 nomination agli Oscar– perché è una storia realistica resa fantastica da una colonna sonora che accompagna le vari fasi dell’amore tra Mia (Emma Stone) e Seb (Ryan Gosling) senza risultare mai invadente; piuttosto ne accompagna i timidi approcci traboccanti di belle speranze e, in un crescendo perfettamente orchestrato, li guida verso un finale agrodolce.

I personaggi vestono le canzoni su misura, interpretandole con una naturalezza tale da trascinare lo spettatore nel loro mondo, rendendolo ospite della loro festa e testimone dei loro fallimenti, creando un’identificazione che da tempo il grande schermo non mi regalava, nonostante sia una delle caratteristiche per me fondamentali alla riuscita di una storia.
La la land ci riesce senza faticare. In fondo è facile rispecchiarsi in Mia, che sogna di diventare un’attrice e per vivere si accontenta di fare la barista, servendo e riverendo le star di Hollywood con la speranza, un giorno, di stare dall’altra parte del bancone.
Anche Seb è un personaggio comune, un pianista appassionato di jazz costretto a suonare le canzoni di Natale al pianobar invece di esprimere liberamente la propria arte, arte che sarà disposto a plasmare secondo i dettami di fama e successo, utili per poter aprire il proprio locale in futuro si spera non troppo remoto.

La la land racconta il successo che va di pari passo coi sentimenti, in quanto la vita non è che un’altalena con cui puoi sfiorare le nuvole e un attimo dopo ritrovarti scaraventato nel fango. Inseguire le proprie aspirazioni è difficile ed è inutile fingere di poter contare soltanto sulla nostra forza, arriva un momento in cui abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia una scossa per non arrenderci come Seb fa con Mia e viceversa, finché le loro strade si separano rincontrandosi dopo anni, quando ognuno avrà costruito una vita in cui l’altro non ha più posto ma non è stato dimenticato.
L’amore, insomma, tira fuori il meglio di noi e ci colora la vita di mille sfumature diverse, ci fa sentire la musica anche quando non c’è, ci fa danzare con la testa tra le nuvole.
La sensazione dolceamara dell’epilogo è come il ricordo di una canzone ascoltata fino alla nausea finché perdi inevitabilmente l’interesse. Ma poi, quando la riascolti, sembra che nulla sia cambiato nonostante il tempo e, per un attimo, ti ritrovi tuo malgrado ad amarla ancora.

VOTO: 9emezzo, strameritato.
LO SAPEVATE?: cosa vuol dire il titolo?un gioco di parole con Los Angeles (LA) ma anche un’espressione usata per indicare uno stato d’animo frivolo, il voler credere che una situazione irreale possa succedere nella realtà.
CONSIGLIATO: correte a vederlo al cinema, perché solo il grande schermo può rendere giustizia alla meraviglia visiva di questo film. Dedicato ai sognatori ma sopratutto agli scettici (e io ero una di loro) che temono sia una commediola canterina e smielata: niente di più sbagliato, ve lo assicuro.
E vi sfido a non innamorarvi della favolosa colonna sonora

 

LA LA LAND TRAILER ITA

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FLORENCE FOSTER JENKINS

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Sarò di parte ma adoro Meryl Streep e dunque penso che questo ruolo sia perfetto per lei, tant’è che anche quest’anno si è accaparrata l’ennesima nomination all’Oscar come migliore attrice protagonista.
Non conoscevo la storia di Florence, cantante lirica diventata famosa per le sue scarse doti canore e mi è piaciuta l’interpretazione della Streep che l’ha trasposta sullo schermo come una donna eccentrica e divertente ma al contempo fragile e spaventata dalla malattia che combatte con ostinazione avvalendosi del magico potere curativo della musica.
C’è da dire che i personaggi di contorno contribuiscono notevolmente alla riuscita del film grazie alla loro simpatia: nel ruolo del marito di Florence c’è Hugh Grant, sempreverde e sempregnocco, che ama sua moglie in modo casto e sincero e fa di tutto per preservarla dalla critica spietata e dallo scherno del pubblico.
Perfetto anche Simon Helberg (Howard di Big Bang Theory) che interpreta Cosmè McMoon, pianista che accompagna Florence nelle sue particolarissime esibizioni fino alla conquista del palco più importante, quello del Carnegie Hall, dove Florence ottiene un grande successo di pubblico e una pesante stroncatura dalla stampa newyorchese.

Florence è una donna svampita e adorabile, tanto che quando la senti cantare per la prima volta quasi vorresti abbracciarla e dirle che non importa se le manca la grazia, la tecnica e la voce, la passione c’è. Ed è importante crederci, alle volte, senza lasciarci condizionare dal pensiero altrui e dalla paura di fallire e ricevere fischi e risate al posto degli applausi. D’altronde la vita non è sempre rose e fiori.
Florence, a dispetto di tutto, ha sempre creduto in se stessa: scoprire che la sua esibizione più importante di sempre è stata giudicata disastrosa non intaccherà la convinzione di aver vissuto comunque una vita soddisfacente in cui, dove non arriva il talento, compensa il coraggio di mettersi in gioco e riuscire persino a vincere, in barba ai pronostici.

”La gente può anche dire che non so cantare ma nessuno potrà mai dire che non ho cantato” (Florence Foster Jenkins).

VOTO: 8
CONSIGLIATO: a chi ha bisogno di un film leggero e frizzante, un po’ frivolo, in cui godere dei gran bei costumi, una bella scenografia e degli attori che calzano a pennello con i personaggi che interpretano

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CAPTAIN FANTASTIC

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Captain Fantastic è uno di quei film che si può oggettivamente definire bello. La trama ruota attorno alla tematica genitori/figli raccontata attraverso la storia di un padre che ha deciso di rintanarsi tra le montagne per provvedere da sé all’educazione dei suoi numerosi figli, che sin da piccoli sono stati abituati a cacciare, scalare pareti rocciose e studiare da autodidatti. Al punto che sono più intelligenti della media, specie se paragonati ai loro cugini di città fuori forma e interessati solo ai videogiochi.
I ragazzi sensibili e intelligenti, di solito, fanno fatica a trovare il proprio posto nella società ma i figli di Ben -questo il nome del protagonista- vivono al di fuori da troppo tempo per poter paragonare la loro esperienza personale a quella degli altri: sfruttano ciò che la natura gli offre, praticano il nudismo, maneggiano coltelli per uccidere gli animali di cui si cibano.
In poche parole ignorano tutte le norme che fanno parte di quella che definiamo una società moderna.

Quando la madre muore suicida in seguito a una depressione post partum mai superata, il gruppo si dirige in città per difendere le ultime volontà della donna che voleva essere cremata e invece finisce in una bara, commemorata nel contesto di un funerale cattolico.
Qui Ben si scontra coi suoceri da sempre contrari al suo stile di vita e viene accusato di aver cresciuto i figli al pari di selvaggi. Secondo i nonni tutti loro avrebbero bisogno di frequentare la scuola e misurarsi con i coetanei ma Ben glielo sta impedendo distorcendo la loro visione della realtà, paradossalmente molto più difficile da affrontare rispetto a una parete rocciosa da scalare sotto la pioggia torrenziale.
Ben si ritrova così a fare i conti con la sua responsabilità di padre iniziando a chiedersi se, in qualche modo, non abbia fatto del male ai suoi ragazzi, specie quando uno di loro inizia a manifestare insofferenza nei suoi confronti.

Ma, alla fine, chi siamo noi per giudicare le scelte altrui?
Una domanda che, forse, dovremmo porci più spesso, perché se un funerale buddista ci sembra assurdo rispetto a un funerale cattolico, cosa vieta a un buddista di pensare la stessa cosa?Girare nudo e insegnare ai suoi figli a maneggiare coltelli affilati o arrampicarsi non fa di Ben un cattivo padre in quanto, a modo suo, gli ha insegnato come muoversi all’interno del mondo e come sopravvivere.
E alla fine i suoi figli sono cresciuti forti e felici di ciò che sono. A conferma del fatto che è l’amore a fare la differenza.

VOTO: 8
CONSIGLIATO: a chi vuole godersi un film originale e mai pesante, nell’ottica che anche un funerale può diventare un’ occasione per cantare e celebrare la vita
LO SAPEVATE? Negli Stati Uniti è stato vietato ai minori di 17 anni per via di una scena di nudo frontale di Ben e alcuni dialoghi. Viggo Mortensen è candidato all’Oscar come migliore protagonista.

CAPTAIN FANTASTIC TRAILER ITA

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