CANCELLARE

Rieccoci, di nuovo a cancellare le strade dai ricordi. Mi sento grafite dal tratto leggero rimossa dal foglio della bella copia e al contempo sono la gomma, chiamata a cancellare i miei passi, i tuoi, i nostri, dalle strade del quartiere. 
Via il ricordo dei caffè di mezzanotte, col freddo che ci bruciava le guance, seduti fuori al tavolo, da soli, tu amaro e io una bustina di canna, tu sorridi mentre bevi io ci fumo sopra, e rido perché sei buffo. 
Via l’immagine di te con le mani in tasca e il cappuccio della felpa in testa, via la tua auto che sapeva di menta. Via quel tuo sorriso enigmatico, timido, diffidente, chissà a cosa pensavi e perché non me l’hai mai detto. 
Via il contatto tra le mani nelle tasche del giubbotto, dita che si sfioravano e si allacciavano al sicuro da sguardi indiscreti, al piccolo mondo che ci ha ospitati, ai buffetti sulle guance al tavolo della cena, io con la bocca piena e tu con gli occhi traboccanti di non so cosa. Proprio perché non lo capivo ti ho voluto bene. 
Cancello il primo bacio che ti ho dato io, in una serata che profumava di Natale e l’aria gelida ci ha fatti avvicinare, poi ti ho stretto forte le spalle e per un attimo è scomparso il mondo intero. Si è sciolto il gelo incrostato sulle ossa, ho cullato in grembo la primavera in inverno inoltrato, un germoglio dischiuso nelle viscere. 

Via alla mia stanza bollente, al letto sfatto, alle tue magliette buttate per terra, quel tuo modo sbrigativo di togliermi gli abiti di dosso, la fame nello sguardo e i gesti dolci nascosti dentro una rudezza simile a corteccia d’albero, difficile da scalfire. Bisognava saperli scorgere, quei gesti, ma io li ho trovati. Li rivedo, chiedendomi ancora chissà da cosa ti stavi proteggendo, chissà che ti ha fatto il mondo, la gente, io.

Cancello il tuo odore dal cuscino, ennesimo spreco di molecole e di essenza. Dimenticare il profumo altrui è una grave perdita ma lo sento ancora quando premo forte il viso sul tessuto e respiro, anche se poi mi manca il fiato. 

Una passata più a fondo delle altre per cancellare la speranza di ciò che poteva essere e invece non è stato. 

La vita va così e io non mi abituo: un passo dietro l’altro fianco a fianco e poi il lavaggio delle strade incrostate di frammenti che raccontano di abbandono e illusioni, di un lieto fine abortito.

Quanto vorrei impronte indelebili per tracciare righe che non si lasciano cancellare, e sopravvivono all’usura della memoria. 

feel

 

 

 

VERSO L’ANAGNINA E OLTRE

Una breve storia di disoccupazione giovanile e precoci rincoglionimenti

 

anagnuna.png

15/12/2015

Ciao belli! Oggi ho fatto un colloquio, deve esse stato il trecentonovantanovesimo credo, forse alla prossima me danno un buono pe annà a lavorà davero (credici).
Insomma ve la faccio breve: dopo venti fermate di metro arrivo a Agnagnina e scendo tutta confusa perché per me Anagnina è peggio de Ponte Mammolo, è il non plus ultra, le colonne d’Ercole della metro A…voi lo sapete che ce sta dopo Anagnina?Io no, ma dal poco che ho visto m’è venuto da piagne.

Comunque, esco dal cortile e scopro che ogni fermata d’autobus c’ ha una scala sua, come i treni, solo che parevano cessi e ci so dovuta passà davanti tre volte prima di capì che dovevo imboccà na porta e salì.
Piglio st’autobus e mi siedo al solito sedile, quello singolo vicino alla porta centrale pe non sta né troppo dietro né troppo avanti, perché se famo l’incidente io me devo salvà, e comunque so asociale e non voglio sta seduta vicino a chi puzza o fa rumore o ascolta musica demmerda a volume sparato.

Oggi è na giornata plumbea e io penso che oltre a esse vecchia dentro so pure babba di minchia, perché fa un freddo così pungente che i chiodi de Cristo a confronto so puntine e io so uscita scialla scialla senza sciarpa, co le calze color carne e i RISVOLTINI. Questo perché ogni tanto me sveglio convinta di esse gggiovane ma non metto mai in conto che poi torno a casa co la bronchite. Infatti pe sembrà figa mi so messa pure il cappottino corto e color vinaccia, lo stesso colore della dita mia dopo i geloni.
Evvabbè.

Insomma arrivo a sto posto dimenticato da Dio e non ce sta nemmeno na pizzeria, così me sbrodolo addosso mezza pizzetta del Carrefour dopo avè fatto pure la figura dell’ignorante chiedendo na margherita che in realtà era na pizzetta rossa normale senza mozzarella…grazie per la precisazione signora fornaia, tanto se semo capiti uguale visto che te l’ho indicata col ditino.

Vado a fa sto colloquio e mi siedo alla scrivania co altre cinque o sei squinzie giovani, bionde e carine tanto che penso: ma io che c’azzecco qua?Però me danno lo stesso un questionario da compilà pieno di domande psicoattitudinali e io vado sparatissima, consegno pe prima tutta gasata, me ne sto annà quando la responsabile me batte sulla spalla e me fa: ”hai dimenticato il retro”.
Ah, ecco perché ho finito subito, capisco, e infatti le altre ancora stanno a scrive perché sul retro ci stanno dieci domande che strizzano un po’ l’occhio a Marzullo.

Che volete sapè?Che devo confessà?

Vabbè, me rimetto a scrive insieme alle altre e la prima compagna c’abbandona dopo cinque minuti, forse s’è pentita d’avè saltato a piè pari la prima elementare, proprio la lezione in cui t’insegnano a scrive nome e cognome sul foglio protocollo (comunque, per chi se lo stesse chiedendo non erano domande di logica ma solo domande del cazzo).

Non vedo l’ora de scappà e alla fine scappo, tanto la figu merda del giorno l’ho fatta, e da qua entra in gioco quell’aura de sfiga e magia che mescolate insieme me rendono n’incrocio infelice tra Harry Potter e Rosso Malpelo fusi in un solo corpo.

Salgo sul bus dalla parte opposta a dove m’ha lasciata du ore prima, ricorrendo alla logica dovrebbe andà nella direzione da dove so arrivata, no?Me siedo al solito posto pe’ contemplare il paesaggio dal finestrino: toh, che bella sta serie de palazzine quadrate un po’ stile fascista, manca solo il balcone per i comiz….ah no, eccolo, tutto sto grigio topo addosso alle cose, e guarda, ce sta pure l’indiano co la bici che sta a spianà la strada avanti e indietro: statte attento chicco che qua a Roma le rotonde so esseri mitologici inquietanti e nessuno se ferma, occhio che te stirano.

Guarda e guarda a na certa me chiedo: ma sta rotonda non è quella di prima?E perché l’indiano c’ha superati?Stamo intrappolati in un vortice spazio temporale?Mo capisco perché a Roma nessuno vole temporeggià dentro a ste cose.

Fatto sta che decido de scende e guarda caso sto alla fermata de prima, co lo stesso barbone sdentato che me guarda come se fossi n’encefalita. Salgo sull’altro autobus che in fronte c’ha scritto METRO ANAGNINA e chiedo a un gentil donzello se va alla metro; quello me risponde sì e io, confortata dalla sua sicurezza, m’abbiocco sul sedile dietro al suo.

Dopo cinque minuti il gentil donzello si gira e fa: <<Brblbebagegbaajdnhejatrhaa>>, o almeno è quello che ho capito io perché sto co le cuffie e non ho sentito una sega ma pure tu ciccio, fammi un segno, paccame, dammela na botta (non in quel senso, a zozzi, poraccio pareva il sosia de Aranzulla).

Je sorrido co na paralisi secca in faccia e lo seguo verso le porte perché ho capito solo METRO e mi viene il sospetto che ci stiamo per arrivare; peccato che la fermata dove scende lui sta nel mezzo del nulla cosmico e io nun ce credo che dietro sta fratta gigante ce sta la metro.

E insomma, me dico che sta carretta prima o poi davanti a una metro ci dovrà passà e così aspetto e guardo il paesaggio fatto di niente, pure il cielo pare fatto de cartone e non ce stanno manco i piccioni. E se nun ce stanno i piccioni inizio a domandarme se nel frattempo sto ancora dentro al Raccordo o al limite sul pianeta Terra.

Alla fine il bus ci scarica tutti davanti la metro SUBAUGUSTA, che ancora mo non ho capito dov’è collocata geograficamente parlando, e torno a casa mesta e mogia che devo ancora fa la spesa e sopratutto me devo scongelà davanti alla stufetta come fossi un pezzo de stoccafisso della cena di Natale.

E a proposito de Natale, na vecchia dentro come me minimo dovrebbe sapè fa l’uncinetto e risolve l’annoso rompicoglionimento dei regali distribuendo sciarpe e guanti demmerda ma guarda m’po’?C’ho la manualità de Jaime Lannister dopo che j’hanno segato la mano, sembro Muzio Scevola che s’allaccia le ciocie.

Comunque e per fortuna sta giornata è finita: oggi ho imparato che pure l’autobus fa i girotondi e pe’ quanto me riguarda dopo Lucio Sestio non stamo più a Roma.
Alla prossima.

CHIO’

 

Cattura.PNG

Ricordo bene nonna, delicata figurina ripiegata sulla poltrona, con le guance paffute e un guizzo prepotente di gioia nello sguardo, quando noi nipoti irrompevamo in casa sua per destarla dal torpore del camino durante quei pigri pomeriggi in cui sonnecchiava, con il sottofondo delle soap opera targate Rete4 senza trama, senza fine.

Nonna indossava un paio di occhiali cerchiati in madreperla troppo ingombranti per quel visetto minuscolo, sembravano pesare un quintale al punto da appesantire la testa, che teneva bassa sulle parole crociate; era un passatempo a cui si dedicava volentieri, nonostante le diottrie mancanti e le mani tremule, lei, che aveva una scrittura stanca e tutta dritta, composta da segmenti spezzettati che non conoscevano curve e arrotondamenti, solo angoli retti e incastri aguzzi.

Da giovane era stata molto bella, diceva mio padre, ma io non ho mai visto una sua foto. Conoscevo solo la curva sagoma dai capelli sale e pepe, le spalle piccole e fragili che per anni avevano sopportato il peso dei carichi, quando si prendeva cura del pollaio e faceva su e giù, dalla casa al cortile, trasportando i sacchi di mangime per le galline, raccogliendo le uova sempre grandi, perfettamente ovali, che usava per fare lo zabaione. Per me nonna era nata così; senza passato, senza giovinezza, senza capelli nero carbone ma con gli occhiali cerchiati in madreperla, il sorriso amabile di chi merita tutto il bene del mondo.

Il mio ricordo di lei è stato sempre a colori, i colori pastello dei suoi maglioncini, del grembiule -o zinale, come lo chiamiamo da queste parti- che indossava come una sorta di uniforme ed era sempre pulito, stirato.

La ricorderò sempre con l’inserto delle parole crociate tra le mani, che completava con una certa scioltezza nonostante occorresse tanta attenzione per riempire le caselle di lettere incerte e affilate, segnate da un tratto marcato, inchiostro sbavato su carta ruvida.

La ricorderò seduta sulla poltrona che era appartenuta al nonno fin quando un giorno, rimasta sola, ci si era seduta lei per la prima volta dopo anni. Chissà se gli mancava il marito, se era più sollevata o preoccupata al pensiero della solitudine che le aleggiava intorno come una sottile, impalpabile presenza. Chissà se ha mai avuto paura della morte, chiusa dentro la casa solitaria e immensa e vuota, con l’eco lungo le scale e le finestre che davano sulla campagna arsa dal sole d’estate, frustata dal gelo d’inverno.

La ricorderò sempre con una dolcezza infinita, quella mia piccola nonna che portava addosso l’odore di caramella Rossana, delle erbe aromatiche, con lo zinale impregnato degli aromi della cucina, i vapori delle pentole sul fuoco, della vecchiaia mite, vissuta con estremo riserbo. Lo stesso riserbo con cui è morta una mattina in ospedale, dove era stata visitata per un problema al piede e non si sa come ne era uscita svuotata della vita, con lo stomaco perforato. Troppe medicine, troppi malanni, troppa riservatezza in quella donna così discreta, che pur di non disturbare i figli e allarmare i nipoti si era sempre tenuta stretta gli acciacchi, i dolori fisici e mentali, i fastidi, i pruriti, i problemi, le angosce, le incertezze.

La ricordo silenziosa, mia nonna, ma con noi nipoti parlava fino a farsi seccare la lingua, con il suo dialetto allegro e i gesti ampi, gli abbracci morbidi, i baci sdentati. Mi chiamava Chio’ e nessuno ha mai capito cosa volesse dire.

Ora sono io a chiamarla così, a infilare quel buffo nomigliolo nelle preghiere, nei saluti che rivolgo alla tomba bianca, dove deposito sempre una rosa in procinto di schiudere, riservata come era lei ma altrettanto nobile, delicata, che infilo nel vaso in compagnia degli altri fiori e osservo scivolare nel mazzo, per non farsi notare.

Per non far sfigurare gli altri, per tenersi stretta la sua unicità. Per essere leggera e non pesare, per entrare e uscire dalla vita altrui senza disturbare, in punta di piedi, come una piuma.

Chio’ era fatta così.

ASCOLTA CON ME: Sia- Lullaby 

FUORI MODA

ted.jpg
Un giorno ti accorgi che non è più il tuo tempo. Succede all’improvviso:
sei passato di moda come le scarpe con la zeppa, come le salopette, i jeans a vita bassa e il piercing all’ombelico. Semplicemente ora le mode appartengono a chi ha vent’anni meno di te e di quello che ti piaceva resta poco o niente. Restano ricordi inchiodati alla corteccia cerebrale che a volte bruciano, perché sono meravigliosamente decadenti, attaccati con le unghie e con i denti a frammenti di infanzia indelebili come un tratto di uni posca sul muro.
Come quando tuo padre tornava a casa da lavoro e riportava a te e tuo fratello un pupazzo comprato in cartolibreria. All’epoca li collezionavamo, ci giocavamo, i nostri pupazzi avevano casa e famiglia, alcuni persino un lavoro, un armadio pieno di vestiti e ognuno la propria storia, la propria identità: l’ingresso in scena di un altro personaggio non scombinava gli equilibri ma allargava le famiglie già esistenti, dimostrando che forma, colore o specie animale non contavano davanti all’entusiasmo di una nuova storia da incorporare alle altre: il nuovo era un valore aggiunto, non certo qualcosa di cui avere paura.
Ricordo come  eravamo impazienti di aprire la busta per scoprire che animale sarebbe arrivato stavolta. Un ricordo dolcissimo, infantile come l’odore di borotalco o latte caldo.
Mi mancano quei giorni, mio padre e i pupazzi.
Anche se molte cose passano di moda, anche se sono più vecchia che giovane e non capisco più il linguaggio moderno tanto da sentirmi una mummia fuori dal sarcofago, non mi importa. Anche se quei pupazzi sono fuori produzione e le cartolibrerie si stanno estinguendo, e le famiglie si chiudono su se stesse e integrare somiglia a una minaccia più che a una bella promessa io non lascio tramontare i miei ricordi.
Nessun bambino si emozionerebbe davanti a un pupazzo oggi, ma io si, lo farei, sono adulta ma chi se ne frega. Piangerei di gioia e senza vergogna alcuna se solo mio padre tornasse ancora da lavoro con indosso la sua camicia azzurra, la busta del pane e quella della cartolibreria sottobraccio. Tornerei a essere una bambina felice, mio padre giovane, mio fratello sdentato, mia madre che cucina spandendo un buon odore in ogni stanza della casa e l’emozione nello scartare il regalo, scoprirlo, portarlo in camera e accoglierlo.

Il mondo qui fuori non è mai stato buono come mio padre, come i pupazzi.